Non ci sono studi in merito
Il corpo delle donne e il bias di genere in medicina. Tornerà il mio ciclo mestruale? "Non ci sono studi in merito" - e io non riesco proprio a farmene una ragione.
“L'uomo è definito come essere umano e la donna come femmina;
ogni volta che si comporta da essere umano si dice che imiti il maschio.”
Simone de Beauvoir
Non è che adesso ti metti a fare grafici e calcoli per capire quanta vita hai perso con il cancro? Me lo hanno chiesto un paio di persone che leggono questa letterina. No, ma chi, io? No no. Invece l’ho fatto, lo ammetto, un po’ perché mi piace sta roba e un po’ perché tanto è la mia vita e posso fare quello che mi pare, più o meno. Ha senso? No, non ne ha, lo so bene. Non c’è numero né calcolo matematico che possa darmi contezza precisa delle cose che ho perso con la malattia, ma nemmeno di quelle che ho guadagnato, a dirla tutta. La rubrica stravolta, la scrittura, la perdita di controllo, il mio corpo diverso, i miei occhi più scuri, tutte le persone che non mi hanno lasciata e che mi hanno, se possibile, amata ancora più ferocemente.
Non c’è numeretto che regga, davvero.
A febbraio ho iniziato i controlli di safety follow-up in ospedale, quelli che dovrei fare da paziente oncologica ma che devo fare soprattutto - e con tempistiche più ravvicinate del solito - da soggetta partecipante a un clinical trial. Vado ogni mese a controllare il sangue, a listare i miei effetti collaterali, soprattutto a parlare con l’oncologo. Facciamo esami, teniamo traccia del mio marker tumorale, il medico apre immagini di scansioni, ecografie, mi fa vedere i polmoni, poi le ossa, le mie costole, il mio seno. Ogni tanto mi controlla le cicatrici, mi chiede sempre come va dentro la mia testa. A sto giro gli rispondo che c’è un sacco di nebbia, che mi dimentico tutto, che ho bisogno che mio marito mi ripeta le cose tre volte, che sto faticando persino a leggere. Mi spiega - in verità me lo ricorda - che quello è il chemo brain, il cervello da chemioterapia, e che spesso, molto spesso, accade quando le cure sono finite. Non si sa perché, non c’è ancora nessuna spiegazione scientifica, clinica, si sa soltanto questo:
Alcune persone affette da cancro notano di non riuscire a pensare con la stessa chiarezza di un tempo. Possono avere difficoltà a ricordare le cose, a concentrarsi, a portare a termine i compiti o a imparare qualcosa di nuovo. Un vero e proprio deterioramento cognitivo.
Passerà, si dia del tempo, dice ancora il medico. Che culo, penso io. Il cervello era davvero l’unica cosa che mi funzionava davvero bene.
Oggi ho una domanda specifica per l’oncologo, voglio sapere se il mio ciclo mestruale ritornerà, ora che le cure sono finite e che non faccio più l’iniezione mensile per bloccarlo. Non glielo chiedo in questi termini, perché lo so che non è un mago (ma dio quanto vorrei che lo fosse, quanto vorrei mi leggesse le carte), quindi gli chiedo - dottore, cosa dicono i dati? cosa dice la ricerca? che probabilità ci sono? Prende carta e penna e inizia ad appuntare protocolli di terapia e cure, e ci appiccica sopra numeri e statistiche. Nonostante il cervello annebbiato lo seguo per bene, è tutto chiaro - mi accorgo però che quello che mi illustra non è esattamente il piano terapeutico che ho seguito io. Vorrei dati più precisi, se possibile.
Non ci sono studi in merito
mi risponde lui. Poi inizia un processo di estrapolazione poco matematico ma comunque sensato, immagino, e il verdetto finale è 50%: la probabilità che il mio ciclo mestruale ritorni è uguale a quella del lancio di una monetina: testa o croce, insomma. Potevamo evitarci questa piccola lezione accademica, forse, sia io che lui.
Poi mentre torno a casa penso ancora a quella frase “non ci sono studi in merito”. Mi pare assurdo. Questa cosa qui delle mestruazioni è per me cosa preziosa e importante, direi vitale, quasi. Vivo senza mestruazioni da un anno e mezzo. Se tornano o meno sarà vitale per un mio senso di riconoscimento identitario, per un mio eventuale desiderio di maternità biologica, per la mia salute che vorrei fosse compromessa il meno possibile da una menopausa precoce e definitiva. Così chiedo dati, chiedo informazioni, sono pronta a studiare, giuro, vorrei capirci di più, ma “non ci sono studi in merito”. Ci penso mentre torno a casa, e in verità lo sapevo dall’inizio (cit.). Avevo letto di roba così quasi un anno fa, con “Im/Paziente. Un'esplorazione femminista del cancro al seno” e soprattutto con il report della commissione Lancet “Women, power, and cancer” (Donne, potere, e cancro), su cui avevo scritto una delle primissime puntate qui.
La medicina ha sempre usato il corpo maschile come standard aureo, considerando invece il corpo femminile come una deviazione dal corpo maschile, una “deviazione dalla norma”. In particolare, per tanti, tantissimi anni, la ricerca biomedica è stata quasi esclusivamente declinata al maschile. Gli studi clinici e preclinici sono stati infatti condotti in prevalenza su linee cellulari, animali, e individui di sesso maschile, determinando un bias di genere nello sviluppo delle terapie, ma anche nella progettazione di piani di prevenzione e di assistenza. Adesso vi dico una cosa che vi farà cadere dalla sedia (spero siate sedutə): in oncologia, prima di somministrare farmaci chemioterapici, bisogna aggiustare la dose tenendo in considerazione peso e altezza del/della/deə paziente, calcolando l’area di superficie corporea. Ecco, la formula che si usa per questo calcolo (la formula di Du Bois e Du Bois) è stata proposta nel 1916 ed è basata su dati derivati da nove pazienti, tutti di sesso maschile. Alcune variazioni della formula sono state presentate dalla comunità scientifica, ma quella originale rimane ancora la più usata. Come a dire che la mia (mia!) dose farmacologica è stata sempre aggiustata usando un modello matematico di riferimento che non ha nemmeno previsto la possibilità di ritrovarsi dinanzi un corpo femminile.
Siete cadutə dalla sedia? Spero di no, perché non ho finito.
È soltanto nel 2015 - cioè soltanto appena 10 anni fa - che il National Institute of Health (NIH) degli USA ha riconosciuto ufficialmente l’importanza di includere il sesso biologico come parametro nella progettazione e nell’esecuzione di studi biomedici. Solo da allora si parla davvero di SABV, sex as biological variable. E le sperimentazioni cliniche? I trial come quello a cui sto partecipando io? Ovviamente le donne da sempre sottorappresentate, nonostante il loro cancer burden sia assolutamente equiparabile a quello degli uomini (se non più alto, ma di questo parleremo un’altra volta).

La cosa che più mi fa arrabbiare è la scelta tutta paternalistica di escludere le donne dagli studi clinici, o di ostacolarne a tutti i costi la partecipazione, come a proteggerle da danni involontari. Perché si sa, noi donne non siamo autonome e non possiamo prendere decisioni indipendenti riguardo al nostro corpo.
Un esempio? Nel 1977 la FDA decise di non includere più donne nelle fasi iniziali di studi clinici per paura di ripercussioni su possibili gravidanze e feti. Una scelta scaturita dallo scandalo talidomide, un farmaco somministrato contro la nausea a donne incinte che successivamente si scoprì essere la causa di focomelia tra neonati. Le donne sono così rimaste escluse dalle sperimentazioni cliniche fino al 1994, quando l’NIH stabilì invece che i farmaci dovessero essere studiati su tutti i pazienti - e le pazienti - che potenzialmente li avrebbero ricevuti. L’NIH pubblicò per l’occasione “NIH Policy and Guidelines on the Inclusion of Women and Minorities as Subjects in Clinical Research” ovvero le “Linee guida sull’inclusione delle donne e delle minoranze come soggetti nella ricerca clinica”. Da allora le donne hanno ricominciato a comparire negli studi, ma intanto abbiamo perso 17 anni di ricerca. Diciassette anni di domande, raccolta dati, possibili risposte. Noi, donne, sempre un passo indietro. Anche con i rinnovati appelli alla nostra inclusione nelle sperimentazioni, i dati parlano chiaro: persiste una disparità nella percentuale di donne incluse negli studi clinici che portano all’approvazione di nuovi farmaci. La disparità è particolarmente accentuata nei studi clinici sul cancro, dove soltanto circa il 35-40% dei soggetti partecipanti a studi su melanoma, polmone e pancreas sono donne. La sottorappresentazione sussiste anche quando si tiene conto delle differenze di sesso nell'incidenza di questi tumori.
Sembra poi che sia complicato avere a che fare con le fluttuazioni ormonali mensili delle donne, che spesso influenzano i risultati degli studi e rendono più complessa la valutazione di una terapia. È un problema nostro? Di noi donne? Direi proprio di no. È piuttosto un problema di chi non vuole capire come fare a studiare il corpo femminile in tutta la sua complessità. Come se tutto ciò non fosse sufficiente, sembrerebbe anche che le donne siano meno inclini a partecipare alle sperimentazioni cliniche per paura di perdere tempo, tempo da dedicare a visite e procedure richieste dallo studio, che invece potrebbero riversare sulla propria famiglia, i figli, le figlie, i genitori, e il lavoro di cura immane di cui si sobbarcano da centinaia di anni.
Spero che sia lampante che il problema enorme del bias di genere in medicina non è una cosa che riguarda soltanto noi donne: riguarda anche gli uomini, perché - lo dice la scienza - malattie e terapie possono manifestarsi e avere effetti in modo completamente diverso nei due sessi biologici. E, a scanso di equivoci, ovviamente inserire il sesso come variabile di studio è importante, ma non basta. Tre anni fa la rivista Nature ha pubblicato un editoriale comunicando che chiunque sottoponga un articolo per revisione deve dichiarare come sesso (che ha a che fare con le caratteristiche biologiche) e genere (che invece ha a che fare con la costruzione sociale della propria identità) sono stati inclusi nello studio, e deve provare a fornire dati disaggregati per sesso e genere, ove possibile.
Insomma la strada è ancora lunga e tortuosa, e il patriarcato ci fa male in molti più modi di quelli che immaginiamo ogni giorno. Sogno un mondo in cui gli studi ci sono, esistono loro ed esistiamo noi, donne, i nostri corpi.
Cose che ho letto, visto, sentito
- - Dimmi del dolore che senti - su donne, dolore, e medicina di genere, mi ha scavato un buco nella pancia. Si accoppia benissimo a questa puntata qui, e ne sono molto felice. Grazie <3
Questo pezzo sulla bellezza mi ha lasciata senza parole: I WANT TO BE BEAUTIFUL.
Sto leggendo “I titoli di coda di una vita insieme” di De Silva. Posso dire che trovo infinitamente poetica la fine delle cose? Solo di alcune cose, però.
Grazie per resistere assieme a me. Anche oggi era lunga <3 Fate ə monellə :)
Mi hai fatto tornare in mente una conferenza di Flavia Carlini che sentii tempo fa. Parlava (anche) di medicina di genere. Espressione che, confesso, avevo sempre sentito ma senza mai rifletterci. Citava gli esempi che anche tu citi ma aggiungeva anche che esistono patologie che hanno sintomi diversi fra uomo e donna, come (ma dovrei controllare) gli infarti. Che infatti spesso non vengono diagnosticati o non subito perché li scambiano per altro. Non è negligenza, è che i medici si sono formati su letteratura basata sullo studio di corpi maschili. Sui bias citava non solo l’esempio della sperimentazione su uomini o donne ma anche quella su persone di colore (qualsiasi colore) che potrebbero avere risposte diverse alle terapie anche in funzione del proprio corredo genetico.
Pur non essendo temi nuovi per me, questa prospettiva incentrata sulla ricerca oncologica mi ha spezzata. Quanta rabbia, linda, quanta. Scriverne e condividere è la strada più immediata che possiamo seguire al momento, quindi grazie per questo numero.